E chi più ne ha più ne metta, viste le considerazioni che possono essere fatte in merito.

Lavoro per una compagnia a cui un’Istituzione europea ha esternalizzato, tra le altre cose, un servizio informativo multilingue: roba di basso profilo, che i funzionari non vogliono svolgere e che l’Istituzione vuole pagare poco. Ovviamente la compagnia ha vinto l’appalto perché ha fatto un’offerta al ribasso, che l’Istituzione ha accettato non solo per una questione economica, ma anche perché cercava qualcuno che accompagnasse il servizio alla sua fine, visto che è ormai evidente che verrà soppresso, nei tagli indiscriminati che interrompono perfino i canali di comunicazione tra Europa e cittadini.

Mi sono chiesta più volte seguendo quali criteri fossero state scelte le persone che vi lavorano: per la maggioranza ignoranti al limite dell’analfabetismo, e anche quei pochi (23%, tutti italiani, immigrati di nuova generazione) che hanno un titolo di studio non si distinguono per cultura generale; un modo quantomeno bizzarro di selezionare persone che saranno la voce di un’Istituzione. Del resto, gli stessi funzionari responsabili del servizio non sono nemmeno laureati, figuriamoci se possono arrivare a fare considerazioni di immagine. (E qui partirebbe anche un’infinita riflessione sui metodi di selezione dei funzionari stessi, ma glisso.)

Anyway. La compagnia chiede spesso ai dipendenti di segnalare amici e conoscenti che si pensa possano andar bene per un posto, e dà pure un premio di 1000 euro lordi nel caso il segnalato venga scelto – per inciso, immagino che sia uno dei motivi per cui a Bruxelles le aziende il curriculum di uno sconosciuto nemmeno lo guardano. Ho segnalato diversi amici: tutti con laurea e master o dottorato, con precedente esperienza nelle istituzioni europee e diverse lingue all’attivo. Ne avessero mai chiamato uno almeno per un colloquio. Eh, beh, ma i 1000 euro mica si danno all’ultimo stronzo arrivato. Io stessa ho fatto guadagnare 1000 euro all’amico di un’amica che mi ha fatta entrare in azienda, dicendo che sarei stata perfetta senza conoscermi – però lavora qui da molti anni e ha diritto a un “premio”, ché sennò l’aumento ricorda troppo un diritto sindacale, non è elegante.

L’ultima arrivata di questo magnifico team ha 22 anni, praticamente nessun titolo di studio, qualche esperienza professionale come cameriera e solo le due lingue locali (manco a un buon livello) più l’inglese a completare il quadro. Contratto a tempo indeterminato dal primo giorno e non voglio conoscere la sua busta paga, potrei accusare forti dolori al fegato. Ovviamente è figlia di un manager della compagnia e di una funzionaria europea. Scommetto che tra un annetto sarà il mio capo.

Così, tanto per dare una risposta a chi dice che in Italia il nepotismo è una piaga sociale. Lo è, ma lo è anche all’estero, semplicemente lo si pratica con maggiore discrezione e non se ne parla a gran voce, con il tipico atteggiamento politicamente corretto imperante in Nord Europa. Tanto per puntualizzare, visto che in Italia si parla dell’Estero come fosse il Paradiso terrestre.

La domanda, piuttosto, è: almeno le istituzioni europee non dovrebbero adottare (o, meglio, far applicare, perché in teoria già ce l’hanno) una carta etica che imponga ai provider di servizi determinate condizioni minime? Paga e trattamento dei dipendenti, criteri di selezione del personale, standard di qualità (e non solo statistiche), richiesta di feedback per migliorare il servizio – robetta, insomma.

“Ah! La tauromachia!”

Avvertenza: se quanto segue sembrerà sconclusionato, nichilista o vetero-idealista è perché sto scrivendo un post sulla realtà del lavoro ascoltando The Dark Side of the Moon: è chiaro che sono nata nell’epoca sbagliata, fatevene una ragione.

Ho avuto la pessima idea di leggere (mai detto che sono masochista?) quello pseudo-articolo su Monster chiamato “Avoid these killer Cover Letter [sì, quelle due maiuscole, n.d.r.] mistakes”. Di là mi si è aperta una finestra, anzi, un tombino, sul mondo di consigli sugli errori da evitare nella cover letter; ne cito solo due random, scusandomi in anticipo con gli autori perché sono CERTA che ci sia di molto peggio in giro: uno è un post su Italians in fuga (che a volte qualcosa di interessante, en revanche, la pubblica), “3 motivi perché [sarebbe ‘per cui’, n.d.r.] i recruiter non vi rispondono”, l’altro è la fonte del primo, ovvero un articolo su Business Insider, “5 Reasons Why You Never Hear Back After Applying For A Job”.

Ecco, partendo da queste ultime 5 ragioni, do le mie 5 ragioni speculari per cui potete tranquillamente e senza alcun senso di colpa scrivere minchiate nella cover letter senza che questo cambi assolutamente nulla del risultato del processo di selezione.

1. Non siete qualificati per quel posto di lavoro

Allora che cazzo ve ne frega? Un selezionatore è pagato per selezionare, che significa scartare gente che non è stata segnalata da qualcuno: fategli sudare i suoi soldi, che trovi il motivo per cui non sareste qualificati. Potrebbe essere qualsiasi cosa: non siete perfettamente quadrilingui in un ambiente dove poi si parla solo l’inglese, non sapete usare AutoCad quando il lavoro da svolgere è di semplice segreteria, non siete proficient in Excel quando dovete scrivere contenuti per siti web, qualsiasi cosa, ho detto! Tanto le aziende pubblicano sempre annunci ai quali gli unici qualificati a rispondere sono il dio Mercurio e la dea Atena e gli unici selezionati sono poi puntualmente i cazzoni che vanno in Place Luxembourg “a fare network” (sì, parlo di Bruxelles, non dell’Italia). Allora rompete le balle, anche solo intasando loro la casella di posta di application inutili.

2. Non avete ottimizzato il vostro CV e la vostra lettera di presentazione

Ammetto che forse sottolineare in carattere 22 neretto maiuscolo le parole chiave e metterle in ordine secondo le richieste dell’annuncio faciliterebbe il compito alle scimm… ops… ai selezionatori, ma, da punto 1, perché farlo? A questo livello di scazzo, un giorno o l’altro manderò una cover letter con tanti “asshole” tra parole a caso, voglio vedere se se ne accorgono: tanto il lavoro, come da punto 1, non lo avrei comunque, almeno potrei fare i complimenti per il livello di istruzione (la skill ‘lettura’) agli schiavi preposti che hanno il buon cuore di dare un’occhiata veloce, se non altro per pruderie,  alla lettera di presentazione.

3. Il vostro CV non è correttamente formattato

Dopo anni di formattazione, credo di avere abbastanza esperienza per poter ricorrere all’espediente carrolliano (che Carroll mi perdoni) di impaginare il testo a formare l’immagine di un dito medio.

4. Il vostro CV è nettamente diverso dal vostro profilo online (vedi LinkedIn, Monster, etc.)

Pensate che il potenziale datore di lavoro si vada a guardare il vostro profilo online? In effetti, forse per guardare la vostra foto, sì, infatti ho pensato più volte di cambiare la mia formale fototessera su LinkedIn e Monster con quella di una smandrappata in costume: ho come l’impressione che avrei più visite. Ad ogni modo il mio CV (nelle sue 850 versioni) e i miei profili pubblici su siti di annunci lavoro sono sostanzialmente uguali e non è cambiata una mazza, quindi al massimo vi consiglio di cambiare la vostra foto con quella degli ultimi modelli (uomo/donna) che hanno posato per qualche campagna di intimo. I babuin… ops… le risorse umane potrebbero essere tentate di concedervi una chance. A quel punto avete l’asso: datela/o.

5. L’azienda ha ricevuto 500 CV per quel posto e il vostro era il 499°

Non mettetevi la sveglia all’alba per controllare gli ultimi annunci (tanto all’alba anche lo zelante selezionatore dorme, as usual, del resto), non pagate per un profilo Pro su LinkedIn (quella stronzata che mette la vostra candidatura “on top”: è come fare il biglietto Ryanair e poi pagare per il priority boarding), non fate stalking di follow-up. Non guardate gli annunci, alzatevi all’ora dell’aperitivo e poi chiamate l’amico che lavora in un’azienda che ha contatti con quella che vi interessa. Dopo penserete, se l’amico vi ha lasciato un minimo spiraglio, a come redigere CV e cover letter, ora andate a ubriacarvi con la birra del night shop a Place Lux e auguri.

È guerra, tra us and them.

Overqualified

18 giugno 2012

Questo post non è un post, è una sfida! Sfido te, che stai leggendo, a trovare una parola più stupida, vuota e discriminatoria di “overqualified”. Tiè, il guanto è lanciato!

Si tratta della definizione più utilizzata dagli esperti di risorse umane, i “selezionatori” – termine che già in sé evoca qualcosa di nazista, visto che, in sostanza, questi esseri si configurano come “portatori di normalizzazione” all’interno di un’azienda -, per liquidare velocemente una persona che secondo loro ha studiato troppo e/o ha troppe esperienze di lavoro per il posto offerto. E sottolineo “secondo loro” perché di non più di un’opinione si tratta: troppo qualificato rispetto a che cosa? Al livello medio dei dipendenti? O dei selezionatori? Al tipo di lavoro da svolgere? Ma se anche sfrutti per quel poco una persona che ne sa di più, non ti conviene lo stesso? Rispetto alla paga? Alla percentuale di cervello da utilizzare nello svolgimento delle proprie mansioni? E in che modo questa viene quantificata? Così?

La paga: no, non è quella la causa. Perché se uno si propone per uno stage pur avendo un dottorato senza chiedere più degli altri, saranno pure cazzi suoi, no? E giuro che succede: mio marito, dottorato in Scienze politiche, che scrive a una ONG che si occupa di diritti umani (bell’ironia…) per fare uno stage e gli rispondono che è “overqualified”. Ma Cristo santo, t’ha chiesto di più? No. Allora uno con un dottorato in Scienze politiche allo stesso prezzo di un neolaureato non ti può far comodo in un’organizzazione che si occupa di diritti umani? E perché un’organizzazione che si occupa di diritti umani considera, giustamente, discriminatorio selezionare in base al colore della pelle e all’orientamento sessuale ma non, ingiustamente, in base al titolo di studio troppo alto? Pensate sia un caso? No, è la regola. E parlo di Bruxelles, mica della profonda provincia del mondo, l’Italia, come amano dipingerci all’estero – e come spesso noi, io per prima, sbagliamo a credere.

I consigli su come strutturare il curriculum e la lettera di presentazione su internet e non solo si sprecano. Ma prendo spunto da uno scambio con i miei amici Jaulleixe (che scrivono un bellissimo ecodiario che consiglio a tutti di leggere) per dire che, per quanto uno cerchi di essere flessibile, e adattare, personalizzare, accorciare, fornire dettagli, abbellire, riguardare, correggere o modificare radicalmente, a seconda della situazione, la verità ultima è che si è sempre fuori posto, per la sola ragione di non apparire omologati. Fosse mai che la mente di chi devo assumere dovesse produrre… dio ce ne scampi! … un pensiero!

A mio marito un amico belga è arrivato a dire – ed è un amico… – di non scrivere sul curriculum che ha un dottorato e che ha girato il mondo per i suoi studi. Ma questa non è una richiesta di flessibilità, è voler spezzare la schiena a una persona per piazzarla fissa a 90 gradi! Questo è chiedere di rinunciare alla propria dignità, alla propria storia, alla propria identità. Non siamo molto lontani da Tempi Moderni, la differenza è che oggi la standardizzazione della manodopera non riguarda più solo chi lavora in catena di montaggio, anzi.

Eh, cari Jaulleixe, se solo avessi un baracca in campagna, un pezzetto di terreno da coltivare e qualcuno che mi insegna come farlo, eccome se non mi darei domani stesso all’agricoltura! Solo per non avere più a che fare giornalmente con l’illogica, cieca ottusità che, nostro malgrado, governa il mondo.