Ora che ho lasciato l’Italia, e che ho messo un po’ di chilometri tra me e quell’orribile fabbrica dove, dicono, si faceva lavoro culturale, posso raccontare dettagliatamente la mia esperienza nel mercato editoriale italiano.

Tanto per fare citazioni colte, This will not be over quickly. You will not enjoy this, quindi se dovete, non so, rivedere il progetto su come salvare il mondo, o avete una quiche nel forno, lasciate perdere, non ve ne voglio.

Non era una notte buia e tempestosa, ma una giornata piuttosto assolata quando ricevetti dalla segreteria del Master la telefonata che mi annunciava che ero stata ammessa. Un Master in Editoria, ovviamente, e il più prestigioso, a quanto pare. Quanto mi sia servito dopo, lascio giudicare a voi. Quel che so è che mi è piaciuto, e molto, e mi ha insegnato probabilmente più di cinque anni di corsi più o meno inutili all’università. Detto questo, per bucare il muro del “semo tutti amici” dell’editoria italiana quanto basta per sopravvivere con gli introiti del proprio mestiere, non è sufficiente un Master, come tanti pensano, è proprio necessario essere: a) parenti o amici stretti di un editore; b) dei grandissimi intrallazzoni. Quindi, sì!, credo fermamente che chi campa bene lavorando per l’editoria italiana faccia parte di una delle due categorie suddette. (Oppure abbia almeno settant’anni, ma questa è un’altra storia e vale per molti settori “produttivi”.)

Finite le lezioni del Master, c’è lo stage: 6-7 mesi generalmente non pagati (tranne che in Mondadori – eh, già, ma non ero tra quelli), sperando che ti dica bene. Mi è sempre piaciuto più Paperino di Gastone, e questa non è una scelta che il karma ti perdona così facilmente, no no! Dopo 7 mesi di stage aggratiss in una casa editrice che stava mettendo i dipendenti in cassa integrazione e che, per continuare a galleggiare, ha cambiato nome e ragione sociale, sono tornata alla ricerca. Lettere e lettere (intendo proprio di carta, perché le mail si cestinano troppo facilmente) mandate a responsabili di redazione, direttori editoriali, deus ex machina – o sarebbe meglio dire oliatori degli ingranaggi editoriali – hanno portato allo stesso risultato: zero. I più magnanimi (percentuale che si aggirava intorno all’8-10%) rispondevano, ovviamente per mail, dicendo di no: signora mia, la crisi, il buco nell’ozono, la moria delle vacche… Chissà se è un discorso che valeva solo per me o se mangiavano davvero gallette a cena.

Ad ogni modo, e rigorosamente tramite conoscenze, ho trovato un lavoro come copywriter, dal quale mi sono sdegnosamente licenziata dopo due mesi per smettere di scrivere di aziende di spurghi e iniziare a “fare Cultura”. Sì, perché nel frattempo una casa editrice mi aveva miracolosamente risposto per invitarmi a un colloquio, ma allora ero giovane e ingenua, e credevo ancora che Babbo Editore (forse un Anziano dell’AIE) lasciasse i classici fuori catalogo sotto l’albero. Come potevo sapere che si trattava dell’editore che vanta il più alto tasso di “mortalità” dei lavoratori dopo le miniere di carbone? Esagero? Io sono stata il numero 107 (numero raggiunto in tre anni) ad andarsene/essere cacciato – orgogliosamente la prima opzione, nel mio caso.

Così inizia l’avventura che mi ha convinta definitivamente a espatriare senza rimpianti. Vengo assunta con contratto a tempo determinato – una mosca bianca in editoria – e lanciata – letteralmente: spinta dall’alto senza paracadute – nel mondo delle riviste. Mi ritrovo dal primo giorno, senza alcuna formazione lavorativa precedente, a essere responsabile di tre riviste, poi aumentate a quattro. “Avranno fiducia in me”, pensai. Certo, oppure il Capo fantoccio delle riviste commerciali, che non vuole responsabilità davanti al Capo vero (il proprietario), deve dare in pasto agli agenti qualcuno da fare a pezzi se non si vende abbastanza pubblicità. Oppure nemmeno loro in realtà sanno che cosa diavolo devono fare. Scegliete voi l’opzione che più vi piace. I fatti sono che mi sono ritrovata a mettere insieme delle riviste bilingui in italiano e russo e italiano e arabo senza conoscere né il russo né l’arabo – ho dovuto reinventare l’intera impaginazione per farne uscire qualcosa: più che una redattrice, ero un ingegnere civile. Sì, in fondo, quando me ne ricordo, mi sento un po’ Jack London che ha solcato tutti i mari uscendone indenne. Ma almeno lui aveva l’alcol, forse avrei dovuto iniziare anch’io.

Anyway, dopo sette mesi così – eppure, amavo ancora quel lavoro -, non appena chiesi la licenza matrimoniale, puntuali come la morte, cominciarono a togliermi le riviste per affidarle a una tizia arrivata dall’organizzazione fiere che non solo non aveva la minima idea del lavoro editoriale, ma sapeva anche male l’italiano. Senza alcuna spiegazione, neanche mezza!, pretendendo da me pure che le facessi formazione. Così per un anno sono diventata la segretaria della redazione: prendevo le telefonate internazionali perché ero l’unica a sapere l’inglese, scrivevo un articolo di qua, correggevo una ciano di là, e nel frattempo mi affidavano qualche missione impossibile tipo fare una nuova rivista in lingua inglese dal nulla in un mese. Per occupare il mio tempo – quindi li ringrazio, perché in fondo pensavano a me – mi davano anche da scrivere qualche grosso progetto (rifacimento siti, un piano di social marketing) che poi nessuno leggeva. Quello che non mancava mai era il lavoro di traduzione in inglese di mail, atti di compravendita, lettere di reclamo, documenti fiscali dei figli del Capo, che pensavano bene di utilizzare me invece di una segretaria personale.

Perché non mi sono rivolta ai sindacati? Oh, sì, che l’ho fatto! E credo che difficilmente disturberò di nuovo il loro sonno.

Arrivata alla fine dei primi 18 mesi di contratto, inaspettatamente questo mi venne rinnovato, non più nella redazione riviste, ma libri. Mi resi conto fin da subito che tutto ciò che mi avevano fatto fino ad allora era niente in confronto a ciò che mi aspettava. Parlo di scenate isteriche davanti a tutti, di attribuzioni di colpe per cose magari fondamentali ma mai spiegate, di pura cattiveria sfogata giornalmente per motivi contrari a ogni logica redazionale: il redattore non deve leggere il testo, non deve correggere troppo (ma il limite di questo “troppo” variava sensibilmente di giorno in giorno), non deve entrare nel merito del contenuto ma se c’è un errore lo deve vedere altrimenti ricomincia il circolo della colpa, della pubblica mortificazione e del disprezzo. La stessa ottusa mancanza di logica che non fosse la pura affermazione gerarchica che riesco a immaginare nell’esercito. Però applicata a una casa editrice, un “luogo che produce cultura”: Se voi signorine finirete questo corso, e se sopravvivrete all’addestramento sarete un’arma, sarete dispensatori di morte, pregherete per combattere! Certo, redattori come dispensatori di morte cerebrale.

Diversi malanni dopo, non vedendo luci in fondo al tunnel, e non riuscendo comunque a pagare affitto e rate della macchina, decisi di dimettermi. Alla notizia, chiaramente nessuna controproposta e una figlia del Capo che mi dice: “Brava, fa bene cambiare aria ogni tanto”.

Ora lavoro da esterna per una piccola casa editrice, sempre italiana – e, a scanso di equivoci, per non confutare la mia stessa ipotesi: lavoro per loro perché li conosco da 10 anni, me li presentò il professore che mi seguì per la tesi. Ma, dato che non faccio parte né del gruppo a) né di quello b), guadagno vergognosamente poco, buona parte del lavoro che faccio lo faccio gratis (tipo: cercare autori da proporre, “riguardare l’impaginato”, ecc.) e per riuscire a vedere i soldi che mi spettano devo sempre fare la voce grossa. Attualmente continuo a mangiare grazie ai soldi del TFR del lavoro precedente e sperando di riuscire a vendere la macchina.

Mi piacerebbe molto continuare a lavorare in editoria – amo tradurre, correggere, scrivere, controllare. Magari succederà, molto probabilmente no, ma nonostante gli sforzi, la preparazione, la passione e le notti insonni non sono disposta ad accettare qualsiasi prezzo perché questo accada. I libri mi hanno già salvata.